04/11/2012 – viedelgusto.it

04/11/2012 – viedelgusto.it

di Giorgia RozzaSull’altopiano delle Murge che attraversa come un rettangolo roccioso longitudinale la parte centrale della Puglia, la nostalgia dello splendido mare che sta a una manciata di chilometri di distanza, sia Adriatico o Ionio, non si fa sentire. Perché qui il paesaggio è dominato da un elemento opposto ma altrettanto affascinante dell’acqua: la terra nell’espressione più pura della sua potenza primigenia. La bellezza del paesaggio murgiano riarso, aspro e sassoso – il nome Murgia deriva dal latino murex, che significa “roccia aguzza” – ci parla di una Puglia contadina dura, dove far crescere i vegetali necessari ad alimentarsi nei campi rocciosi delimitati dai pungenti e spigolosi muretti a secco non era facile, come non era facile allevare il bestiame. Qui ce la facevano e tutt’ora ce la fanno a sopravvivere solo i rustici ovini con la poca acqua che cade dal cielo o che sgorga dalla terra ma che viene subito risucchiata nelle profondità carsiche del sottosuolo. Alta Murgia, pietrose“terre imperiali” di Federico II Eppure, con fatica e sudore, gli uomini sono riusciti a fare attecchire le colture della vite, dell’olivo e del mandorlo su superfici insolitamente collinari per la Puglia. È soprattutto l’Alta Murgia, quella settentrionale, a ribellarsi all’orizzontalità che domina la Regione. Qui la terra si increspa e alza la testa, dando vita a ondulazioni pietrose che arrivano a sfiorare i 700 metri. La vegetazione è stepposa, con tratti di macchia mediterranea, boschi di roverelle, cerri, lecci e pini d’Aleppo e cipressi d’impianto artificiale. In primavera esplode il candore dei fiori del mandorlo e, più tardi, accendono il paesaggio i colori aranciati degli spinosi frutti dei fichi d’India. E quando si scopre che in questo “cuore di pietra” della Puglia, c’è un gioiello architettonico di perfetta purezza geometrica che da quasi ottocento anni osserva silenziosamente il paesaggio circostante si rimane senza fiato. A diciotto chilometri dalla bianca città di Andria, che sorveglia benigno, sorge il maestoso maniero a forma di corona ottagonale voluto da Federico II di Svevia: Castel del Monte, Patrimonio Mondiale dell’Umanità dal 1996. Ecco perché la zona dell’Alta Murgia è spesso definita poeticamente come “Terre Imperiali”, perché il suo cuore storico batte a Castel del Monte e perché questo fu un territorio molto amato da Federico, il puer Apuliae, il “fanciullo pugliese”, come lo chiamavano, non nascondendo un certo scherno, i principi elettori tedeschi del Sacro Romano Impero di cui Federico riuscì a cingere la corona. Ma un altro dei suoi soprannomi, assai più elogiativo, era stupor mundi, per la sua cultura e la sua aprtura mentale. Nato nel 1194 nelle Marche da madre normanna e padre svevo, Federico divenne Re di Sicilia a soli quattro anni, duca di Svevia, re di Germania e re di Gerusalemme oltre che, appunto, imperatore. Un capolavoro architettonico e una Doc Tornando ai nostri tempi,“ Castel del Monte” non si riferisce solo al monumento voluto da Federico II ma designa anche una Doc, nata nel 1971. È definita “a ombrello”, perché comprende vini assai diversi tra loro. Se al ristorante ordiniamo semplicemente una Doc Castel del Monte, la bottiglia che ci arriverà al tavolo non potrà che essere una totale sorpresa. Potrebbe essere un vino di un vitigno in purezza o un blend e potrebbe essere rosso, bianco o rosato, fermo o mosso. L’unico punto fermo è la zona di produzione che deve coincidere con le province di Trani-Andria-Barletta e di Bari. Facciamo qualche esempio: Castel del Monte rosso Doc può essere composto da uve di Aglianico, oppure di Nero di Troia oppure di Montepulciano per una percentuale che va dal 75 al 100% con l’eventuale aggiunta di un’altra uva se il vitigno principale non è in purezza. La Doc Castel del Monte Bianco Frizzante è composta da uve Bombino Bianco, Chardonnay o Pampanuto in una percentuale che va, come nel primo caso, per ognuno di questi tre vitigni, dal 75 al 100% . Non è sempre colpo di fulmine Con questi soli due esempi abbiamo già incontrato il vitigno che ci interessa: il Nero di Troia, uno dei tre autoctoni pugliesi insieme al Negroamaro e al Primitivo di Manduria. Il suo nome sembra derivare da una leggenda: sarebbe stato portato da Diomede sulle rive del fiume pugliese Ofanto dalla mitica Troia, città dell’Asia Minore. Il grappolo è splendido: di colore blu violaceo intenso, ha foglie ampie e pentagonali e si presenta in due sottovarietà a seconda della dimensione e del posizionamento degli acini Quelli che costituiscono la sottovarietà Ruvese (la più diffusa) sono grandi e formano grappoli serrati, mentre quelli che compongono la Canosina sono più piccoli e danno vita a grappoli spargoli, cioè con spazi vuoti al loro interno. La buccia è spessa e ricca di tannini e vedremo che questo ha rappresentato un grave problema per i viticoltori per lungo tempo.. La vendemmia è tardiva e inizia nella seconda metà di ottobre. La gradazione alcolica del Nero di Troia in purezza va dal 13 al 14 % e la sensazione organolettica che offre può variare di molto da terreno a terreno e dal tipo di lavorazione ma, di base, si può asserire che in genere il questo vitigno dà un vino che ricorda il sapore delle more, delle ciliegie e delle prugne. Spesso non è amore a prima vista. In effetti, se non è lavorato da mani sapienti può essere troppo astringente in bocca perché, come accennato, la buccia e i vinaccioli degli acini sono ricchissima di tannini. Proprio per questo, prima di imparare a lavorarlo per renderlo un ottimo vino in purezza, i viticoltori pugliesi lo hanno tagliato per molto tempo con il Montepulciano, vitigno che calmava la sua scalpitante ruvidezza. Ossigeno, tannini e qualità organolettiche diverse Da anni ormai si produce in purezza, creando vini ben strutturati e prestigiosi. I viticoltori hanno scoperto che occorre una cura attentissima, dopo la fermentazione, alla fase di maturazione durante la quale l’ossigeno può togliere al vino le spigolosità della gioventù e renderlo armonico e rotondo. L’ossidazione ha luogo nelle operazioni di travaso e di imbottigliamento ma, soprattutto, nella permanenza nel legno, sia esso tonneau, barrique o botte. Il legno, infatti, è un elemento poroso che mette il vino a contatto con l’aria contrariamente a quanto fanno, invece, i contenitori “inerti” come quelli di acciaio inox. Essendo un materiale organico, a seconda del tipo di essenza arborea dal quale deriva, dalla provenienza geografica degli alberi, dallo spessore delle doghe del contenitore, dal fatto che quest’ultimo sia stato già usato o sia nuovo, il legno cede qualità organolettiche uniche al vino che, per questo, è sempre diverso. Ma le differenze tra etichette o annate di un Nero di Troia in purezza, come del resto di tutti i vini, sono relative anche ad altro: alla piovosità annua, al tipo di terreno in cui è piantata la vigna: carsico, come nella parte più elevata della Murgia, tufaceo-calcareo come nella pre-Murgia che raggiunge un’altitudine di 300 metri, o argilloso-sabbioso se in pianura, vicino al mare. Ovviamente anche le diverse altitudini contribuiscono a dare al vino profumi e sapori mai uguali perché differenti sono gli sbalzi di temperatura tra giorno e notte che i grappoli subiscono. Tre volte nella Doc Castel del Monte e anche nella Docg Ci sono varie Doc nelle quali il Nero di Troia fa capolino: Cacc’ è mitte di Lucera, Ortanova, Rosso di Cerignola, Rosso di Canosa, Rosso di Barletta e Tavoliere ma in purezza lo troviamo solo nella Doc Castel del Monte, dove questo vitigno compare tre volte. È il caso della Doc Castel del Monte Nero di Troia dove il vitigno è presente per il 90% o in purezza; della Doc Castel del Monte rosato, prodotta con vitigni Bombino Nero, Aglianico o Nero di Troia in percentuali che vanno dal 90% al 100. In evidente contraddizione con il suo nome, il Nero di Troia in purezza, in questo caso, dà origine a un vino rosato grazie a un breve periodo di contatto delle bucce con il mosto. Infine, come abbiamo ricordato, la Doc Castel del Monte rosso può essere prodotta con Aglianico, Montepulciano o Nero di Troia in percentuali che variano dal 75% al 100. Nel 2011, sono state istituite due Docg che prevedono entrambe la presenza del Nero di Troia. La prima è la Castel del Monte Rosso Riserva, che può essere prodotta solo nei comuni di Minervino Murge, Andria, Trani, Corato, Ruvo di Puglia, Terlizzi, Palo del Colle, Toritto, Bitonto e Binetto. Qui, il nostro vitigno è presente per il 65%, il resto è costituito da altre uve a bacca nera non aromatiche. Questa Docg prevede un invecchiamento minimo di due anni, di cui uno in legno. La seconda Docg si chiama Castel del Monte Nero di Troia Riserva, è prodotta negli stessi comuni della prima, ed è composta da Nero di Troia per un minimo del 90% più il 10% di altri vitigni a bacca nera non aromatici. Anche per quest’ultima la legge prevede due anni di invecchiamento minimo, di cui uno nel legno. Quanto possano resistere nel tempo i vini di queste due Docg rimanendo di alta qualità e, magari anche migliorando, è impossibile a dirsi perché al momento sono ancora troppo giovani. Villa Schinosa, tra Nero di Troia, Moscato, olivi e mandorli Le aziende vitivinicole della zona della Doc e della Docg che propongono assaggi e degustazioni sono tante e molte di loro valgono la pena di essere visitate anche per la bellezza del paesaggio che le circonda o per gli edifici storici nei quali sono situati. Fare “turismo del vino” è un modo originale per conoscere la Puglia e la sua cultura, possibile tutto l’anno, evitando la ressa e i prezzi alti dei mesi estivi. Partiamo da Villa Schinosa, un’azienda agricola di proprietà di Corrado Capece Minutolo situata a una manciata di chilometri dallo splendido centro storico di Trani (Strada Provinciale Trani-Corato, 178 – tel. 0883 580612 – www.villaschinosa.it). Ci fa da anfitrione Maria Capece Minutolo, madre di Corrado e moglie di Ferdinando. Il terreno coltivato è esteso su 200 ettari, tanto grande che lo visitiamo in pullman. C’è la zona a vite (60 ettari), quella a oliveti a monocono delle cultivar Coratina, Ogliarola e FS17, il mandorleto e il ciliegeto. «Le mandorle vengono raccolte con lo scuotitore, le ciliegie a mano» spiega la padrona di casa, che continua: «I nostri vigneti sono allevati a spalliera con pali capotesta in rovere e fili d’acciaio che legano tra loro le vigne invece che di rame perché sono molto più resistenti al cospetto delle macchine vendemmiatrici e non arrugginiscono. Non usiamo diserbanti chimici, le erbe infestanti vengono rimosse meccanicamente. Tra i nostri vitigni ci sono il Moscato Reale di Trani, il Bombino Nero e il Bombino Bianco, il Primitivo e il Nero di Troia, cui si affiancano i non pugliesi come il Fiano, il Greco, la Falanghina, l’Aglianico, il Cabernet Sauvignon, lo Chardonnay, il Merlot e lo Syrah. Grazie all’aiuto del nostro enologo Cristoforo Pastore, con il vitigno Moscato Reale di Trani, produciamo un Moscato secco aromatico Igt e un Moscato di Trani Doc in purezza dolce». La vicinanza dei vigneti alla cantina, fondata nel 1884, è molto utile per evitare di innescare la fermentazione dei grappoli tagliati quando, appena tagliati, sono ancora nelle cassette tra le vigne. Per quanto riguarda il Nero di Troia l’azienda produce un vino in purezza Igt perché il terreno è situato una manciata di chilometri fuori dal territorio della Doc. La fermentazione alcolica del mosto ha una durata di 10-12 giorni per ottenere la massima estrazione possibile delle sostanze aromatiche e coloranti. La maturazione avviene in vasche di cemento vetrificato e poi in botti di rovere di Slavonia da 35 ettolitri. Successivamente c’è la fase dell’affinamento in bottiglia che dura da 3 a 6 mesi. E la produzione complessiva? «Si aggira sulle 350mila bottiglie all’anno. I Paesi verso i quali esportiamo di più sono gli Stati Uniti e la Lituania» dice ancora Maria. Ce ne andiamo dopo aver degustato un Moscato dolce Doc e un Nero di Troia Igt dalla sgargiante etichetta rossa e non prima di aver dato una sbirciata al cuore della tenuta, la splendida masseria dove abitano i proprietari. Rivera, un punto fermo per la viticoltura pugliese Ha un aspetto assai più industriale l’Azienda Vinicola Rivera Spa, posta sulla Strada Provinciale 231, km 60,500 nel comune di Andria (www.rivera.it). Fondata ai primi del Novecento da Giuseppe De Corato, passò nelle mani del figlio Sebastiano nel 1950. Nei primi anni Ottanta Carlo, l’attuale presidente, rinnovò completamente la produzione facendo diventare l’azienda una grande realtà ben strutturata. Oggi Rivera, che possiede circa 90 ettari di vigneti, produce più di un milione di bottiglie l’anno per il 40% vendute all’interno della Regione, per il 20 commercializzate nel resto d’Italia e per il 40 esportate. L’azienda è guidata dalla quarta generazione, cioè da Sebastiano, figlio di Carlo, che ci accoglie per la degustazione. Da quindici anni alla Rivera, è responsabile della parte commerciale mentre il fratello Marco, più giovane, si occupa dell’amministrazione. Presidente lo è anche Sebastiano ma del consorzio Movimento Turismo del Vino di Puglia, federato con il Movimento del vino nazionale, che opera per incentivare le visite ai luoghi di produzione del vino e la conoscenza dello stesso. Il primo Nero di Troia vinificato in purezza da Rivera porta la data del 2002 e sull’etichetta la dicitura Castel del Monte Nero di Troia Doc Puer Apuliae. Ma i De Corato lavoravano su questo prodotto già dalla metà degli anni Novanta coltivando un vigneto sperimentale di 4 ettari in contrada Tafuri. Qui fecero crescere un clone quasi dimenticato del vitigno e ottennero un vino elegante, di grande struttura con profumi di viola e anice stellato. Il Puer Apuliae è lasciato fermentare 20 giorni in acciaio prima di fargli intraprendere una maturazione di 14 mesi in barrique nuove di rovere e un affinamento in bottiglia di un minimo di nove mesi. È prodotto partendo solo da grappoli spargoli – quelli serrati, infatti, se si gonfiano a causa della pioggia possono scoppiare l’uno sull’altro creando marciume e rovinando la qualità dell’uva. Un altro Nero di Troia in purezza più fresco del primo, è il Violante Castel del Monte Doc che non prevede maturazione nel legno ma che, dopo la fermentazione in acciaio per dieci giorni, passa direttamente nelle vasche di cemento vetrificato dove rimane nove mesi. Infine, assaggiamo uno dei più prestigiosi vini di tutta la Regione: il Falcone, dedicato all’amore di Federico II per la caccia con il falco e al saggio che scrisse sull’argomento: De arte venandi cum avibus. Si tratta di un Castel del Monte Doc Riserva: un blend di Nero di Troia al 70% e di Montepulciano. Carpentiere: se è bianco, il Nero è loro Ce ne andiamo dall’organizzatissima azienda Rivera per approdare in un contesto assai più bucolico: le Cantine Carpentiere, immerse nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia in contrada Bagnuolo nel territorio comunale di Corato a un’altitudine di 450 metri (www.cantinecarpentiere.it). L’azienda custodisce un gioiello dell’architettura rurale medievale: uno jazzo originale del Duecento ristrutturato e perfettamente conservato. Oggi le pecore non ci sono più ma la cinta muraria a secco che doveva proteggere gli ovini dagli attacchi notturni dei lupi intervallata da piccole costruzioni a forma di trullo per il pastore è una bellissima pennellata di sfumature di grigio sulla tela di una natura di fine estate dove i colori sono ancora fortissimi. Cantine Carpentiere è un’azienda giovane, come ci racconta il fondatore Luigi Carpentiere: «E’ stata aperta da mio fratello Vincenzo e da me nel 1997 ma l’amore per la terra l’abbiamo ereditato da nostro padre che commercia frutta a Barletta e da nostro nonno paterno Luigi che produceva vino. Conduciamo i nostri vitigni estesi su 18 ettari con il metodo dell’agricoltura biologica. Per combattere la peronospora, per esempio, non usiamo sostanze chimiche di sintesi, ma ciò che utilizzavano gli antichi Romani: rame e zolfo; contro la tignola, utilizziamo una muffa che la elimina, il Bacillus thuringiensis, oppure spruzziamo feromoni sessuali di questo insetto tra le vigne per creare scompiglio ormonale e impedire che si riproduca». I terreni di Cantine Carpentiere sono quasi tutti coltivati a Nero di Troia ma c’è anche un po’ di Cabernet Sauvignon, Merlot e Bombino Nero. Una peculiarità di questa realtà è l’aver vinificato il Nero di Troia in bianco nel 2006. Questo vino on rientra in alcun disciplinare ma è piacevolissimo, come il suo nome: Come d’Incanto. Dal colore luminoso, al naso ricorda piccoli frutti rossi e miele, al palato propone note di frutta bianca. Oltre a questa originale scelta, l’azienda ne ha fatte di più tradizionali, producendo vini rossi di grande caratura come Pietra dei Lupi, una Doc Castel del Monte Rosso 100% Nero di Troia, che regala sentori di amarasca e frutti di bosco e che viene fatto maturare per un anno in rovere di Slavonia. Ce ne andiamo non prima di aver gustato un sorso di Armentario, altro Nero di Troia in purezza, ma questa volta a marchio Docg, Si tratta, infatti, della Docg Castel del Monte Rosso Riserva, annata 2006, con un’elegante etichetta nera “ferita” da una traccia rossa che rappresenta la transumanza ovina. Il vino è pronto da imbottigliare dopo tre mesi in acciaio e due anni in rovere di Slavonia. E ora via per scoprire un’altra cantina che vanta una primogenitura tutta speciale…. Vignapedale: il primo Nero di Troia in purezza Siamo alle Cantine Torrevento, più esattamente, nella stalla elegantemente ristrutturata del Secentesco monastero in pietra di Contrada Torrevento che l’azienda vitivinicola acquistò insieme ai suoi 57 ettari di terreno nel 1948. L’ex stalla è ora adibita a sala di degustazione e, a guidarci nell’assaggio dei vini e nel racconto della storia della sua azienda, è l’attuale presidente nonché AD Francesco Liantonio. Racconta del nonno, suo omonimo, nato nel 1897, uno dei tanti emigrati italiani in cerca del sogno americano che attraccarono a Ellis Island senza un soldo e che, dopo alcuni anni, fecero ritorno ricchi. Era il 1916 quando Francesco giunse a New York e iniziò la sua carriera di venditore di ghiaccio in strada. È una storia che più americana di così non si può: in quindici anni, divenne proprietario dell’azienda della quale era dipendente, la rivendette e tornò in Puglia nel 1920. Fu allora che, insieme al fratello maggiore Domenico, costruì il primo stabilimento vinicolo e decise di continuare anche l’attività olivicola del padre, già proprietario di un frantoio. Il primogenito di Francesco, Gaetano, nato nel 1931, ne proseguì l’attività e acquistò il monastero che è oggi la sede dell’azienda. Nel 1989 il testimone passò nelle mani di Francesco, figlio di Gaetano, che lasciò la docenza di Economia e Commercio e decise di dare una rivoluzionaria svolta all’azienda di famiglia, puntando tutto sull’identità del prodotto, imbottigliandolo ed etichettandolo invece di venderlo sfuso. Liantonio fu il primo in Puglia a credere nelle potenzialità del Nero di Troia: la prima bottiglia di questo vitigno in purezza mai prodotta è Vignapedale, messa in commercio nel 1996 (vendemmia 1993). Ma l’azienda vanta anche un altro primato: possiede il vigneto più alto di Puglia, posto tra i 400 e i 600 metri di altitudine. Oggi Torrevento coltiva 200 ettari nelle Murge ma ne ha 200 in altre aree della Puglia dove ha accordi con produttori storici con i quali porta avanti la conduzione dei vigneti e la vinificazione in loco controllata dall’enologo di Torrevento (così nasce per esempio il Primitivo di Manduria Doc che, ovviamente non può essere prodotto nelle Murge). Invece, le uve Negroamaro e Primitivo finalizzate alla produzione delle Igt sono trasportate nelle cantine Torrevento che le vinificano direttamente. «Il vino più venduto da un anno a questa parte – dice Franceso Liantonio con un certo orgoglio – è proprio il Nero di Troia in purezza». Torrevento lavora 60mila quintali di uva e oltre il 70 % del vino prodotto è venduto all’estero. Solo il 10% viene commercializzato nel Centro-Sud della Penisola e il 20 nel Nord Italia. Noi assaggiamo il mitico Vignapedale Castel del Monte Doc Rosso Riserva 2009, un Torre del Falco Murgia Igt Nero di Troia Rosso in purezza, un Primaronda Castel del Monte Doc Rosato annata 2011 composto da Bombino nero per l’80% e da Montepulciano per il resto con un forte sentore di ciliegia. E, dulcis in fundo, la prima e unica Docg rosata in Italia: la Veritas Castel del Monte Docg prodotta con il vitigno Bombino nero in purezza che, per la natura delle sue bucce, viene sempre vinificato in rosa. E per finire… quasi una serata tra amici Estesa su 15 ettari a Ovest di Corato a un’altitudine media di 300 metri s.l.m., l’Azienda Agricola Santa Lucia di Puglia è specializzata in vinificazione monovarietale, cioè in purezza. Oltre al Nero di Troia, produce Neogroamaro, Fiano e Aleatico. Il proprietario, Roberto Perrone Capano, che si divide tra la professione d’avvocato a Napoli e i suoi vigneti, non ci porta nemmeno in cantina. Come se fossimo da un amico, entriamo direttamente nella sua casa per la degustazione. La Doc Castel del Monte Rosso Vigna del Melograno è un Nero di Troia in purezza dal 2002, cioè dopo che è stato tolto il 10% di Malbec, vitigno originario francese ma che ha trovato la sua patria d’elezione in Argentina. Vigna del Melograno ha il colore tipico delle prugne nere e sentore di frutta rossa matura. Dopo la fermentazione alcolica in acciaio inox, passa otto mesi nella rovere, altri otto in vasche di cemento vetrificato e 6 in bottiglia. La Doc Castel del Monte Riserva Le More, invece, è prodotta in purezza dal 2001. Come per tutti i vini di Santa Lucia, dopo la raccolta a mano, i grappoli vengono messi in cassette di legno e giungono in cantina in soli 15 minuti. La fermentazione alcolica inizia subito ed è seguita da una maturazione di 18 mesi in barrique francesi di rovere e da un affinamento di un anno in bottiglia. Santa Lucia produce solo 5mila l’anno di Riserva “Le More”: una vera chicca. L’azienda, che non utilizza prodotti chimici di sintesi nel trattamento delle vigne, vanta una continuità storica familiare di tutto rispetto: le prime fonti che attestano la sua esistenza risalgono al 1628, anno in cui un documento d’archivio riporta: «Marc’Antonio Perrone possiede annui ducati 60 di fiscali feudali sopra Quadrati», che è l’antico nome di Corato. Per avere testimonianze della cantina e una pianta topografica dei vigneti occorre, invece, attendere la metà dell’Ottocento. Finita la degustazione ce ne andiamo con in tasca una ricchezza in più: la conoscenza di un vino che farà strada frutto di una Puglia sempre più vivace economicamente e culturalmente e pronta a cogliere e a valorizzare le ricchezze del suo territorio.