Addio pensione di reversibilità: l’INPS ha deciso l’esclusione immediata dal 2026 | Cosa cambia dal 1° gennaio

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Pensione (Pexels) - MtvPuglia

Tutte le novità in vista del 2026 sulla questione pensione di reversibilità: l’INPS usa il pugno duro. 

Il sistema previdenziale italiano si appresta ad affrontare nuove sfide nel prossimo triennio e, con l’avvicinarsi del 2026, l’attenzione si sposta sulla sostenibilità delle prestazioni assistenziali, tra cui la pensione di reversibilità. Sebbene questo istituto rappresenti un pilastro fondamentale per la tutela dei familiari superstiti, le normative vigenti e i controlli incrociati dell’INPS stanno rendendo l’accesso all’assegno sempre più selettivo. Non si tratta solo di una questione di tagli, ma di una rigorosa applicazione di criteri che, se non soddisfatti, portano all’inevitabile negazione del diritto. Comprendere le cause di esclusione è essenziale per pianificare il futuro economico delle famiglie.

I limiti reddituali e il meccanismo di decurtazione

La causa principale che incide sull’importo della pensione di reversibilità, fino ad azzerarne in alcuni casi la convenienza o il diritto pratico, riguarda i limiti di reddito del beneficiario. La normativa attuale, che si proietta senza sostanziali modifiche strutturali verso il 2026, prevede che l’assegno spettante al coniuge (pari al 60% della pensione del defunto) subisca dei tagli percentuali qualora il reddito personale del superstite superi determinate soglie annuali.

Il meccanismo agisce come una forbice progressiva: se il reddito del beneficiario supera tre volte il trattamento minimo INPS, l’assegno viene ridotto del 25%; se supera quattro volte il minimo, il taglio sale al 40%; se supera cinque volte tale soglia, la decurtazione arriva al 50%. In vista del 2026, con la rivalutazione dei trattamenti minimi dovuta all’inflazione, le soglie nominali si alzeranno, ma parallelamente potrebbero aumentare anche i redditi nominali dei superstiti (ad esempio per rinnovi contrattuali), esponendo una platea più ampia al rischio di taglio. È fondamentale notare che, sebbene raramente si arrivi alla negazione totale basata sul solo reddito (a meno che non venga meno lo stato di bisogno in casi specifici di integrazione), la riduzione può rendere l’importo irrisorio.

Vincoli matrimoniali: divorzio, nuove nozze e convivenze

Un’area giuridica particolarmente scivolosa, foriera di numerose reiezioni da parte dell’INPS, riguarda lo stato civile e la natura del legame con il defunto. La causa più immediata di decadenza del diritto è il passaggio a nuove nozze: il coniuge superstite che si risposa perde automaticamente la reversibilità, ricevendo solo una liquidazione una tantum pari a due annualità della quota di pensione, compresa la tredicesima. La convivenza more uxorio, al contrario, non fa decadere il diritto, creando una disparità di trattamento che rimane tuttora valida.

Situazione complessa anche per i divorziati. Affinché l’ex coniuge possa accedere alla reversibilità (o a una quota di essa), è obbligatorio che sia titolare di un assegno divorzile sancito dal tribunale prima del decesso dell’ex partner. Se il divorziato non percepiva alimenti, la domanda verrà respinta. Inoltre, l’ex coniuge non deve essersi risposato. Un altro punto critico riguarda i cosiddetti “matrimoni di comodo”: la legge prevede controlli stringenti e presunzioni di frode qualora il matrimonio sia stato contratto poco prima del decesso con un coniuge molto più anziano, salvo la presenza di figli minori. In questi casi, l’onere della prova sulla genuinità del legame spetta al superstite, e il fallimento nel dimostrarlo porta alla negazione della prestazione.

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Requisiti contributivi e la situazione dei figli

Non bisogna dimenticare che la reversibilità si basa sulla posizione assicurativa del defunto. Una causa frequente di negazione, spesso ignorata fino al momento del lutto, è l’assenza dei requisiti contributivi minimi da parte del lavoratore deceduto (nel caso di pensione indiretta, ovvero quando il defunto non era ancora pensionato). Per generare il diritto alla pensione per i superstiti, il dante causa deve aver maturato almeno 15 anni di contributi in tutta la vita lavorativa, oppure 5 anni di cui almeno 3 nel quinquennio precedente la morte. Se questi requisiti non sono soddisfatti, l’INPS negherà la pensione, riconoscendo eventualmente solo un’indennità una tantum, molto meno vantaggiosa.

Infine, per quanto riguarda i figli superstiti, il 2026 vedrà continuare l’applicazione rigorosa dei limiti di età. La pensione spetta ai figli minori, ma per i maggiorenni il diritto permane solo se studenti (fino a 21 anni per le scuole superiori, fino a 26 anni per l’università) e a carico fiscale del genitore al momento del decesso. Se un figlio studente lavora e supera un determinato reddito, o se interrompe gli studi, perde il diritto. Per i figli inabili al lavoro, invece, la pensione spetta a prescindere dall’età, ma la condizione di inabilità deve essere certificata con estrema precisione dalle commissioni mediche; il mancato riconoscimento sanitario è una causa frequente di rigetto della domanda.