Moschettieri di Capitanata
Lo spumante della D’Araprì: acronimo da sapore francesediGUGLIELMO BELLELLID’Araprì è un acronimo: viene infatti dalle iniziali dei tre fondatori, Girolamo D’Amico, Ulrico Priore e Louis Rapini, ed evoca anch’esso i personaggi del romanzo di Dumas (sembra una fusione di D’Artagnan e Aramis). C’è pure la dama inglese, non la perfida Milady de Winter, ma Elisa Croghan, la compagna dell’ultimo principe di San Severo, la Dama Forestiera, a cui la D’Araprì ha dedicato il suo spumante più ambizioso. Insomma ci sono tutti gli ingredienti per una bella avventura, quale è quella di questi tre amici, amanti della musica jazz, che hanno dato vita ad una piccola, ma straordinaria azienda che, unica in Puglia, produce solo spumanti con il metodo champenois. Inventarsi in questa parte della Capitanata, una zona con una antica tradizione vitivinicola (il sottosuolo di San Severo è in pratica tutta una successione di cantine), ma priva di notorietà internazionale, una azienda che produce vini in grado di competere più che onorevolmente con i più raffinati esistenti al mondo, gli champagnes, ha un che di guasconesco, eppure… Più di una volta ho proposto ad amici esperti gli spumanti di D’Araprì in blind taste con altri di zone più reputate (Franciacorta o Trentino), sempre compiacendomi del loro stupore nello scoprire che lo spumante che avevano più apprezzato veniva dalla provincia di Foggia.I moschettieri sono: Ulrico Priore, contrabbassista, già collaboratore di una nota cantina di San Severo, oggi Chef de cave della D’Araprì; Girolamo D’Amico, chimico e trombettista, specializzato in enologia e tecnologie agroalimentari, enologo dell’azienda, e Louis Rapini, il francese (il padre era emigrato a Lyon, e lui é nato lì, rimanendovi fino ai 12 anni), pianista e insegnante di musica. Tutti e tre, come chiunque a San Severo, con esperienze familiari nella produzione di vino, ma con l’aggiunta di preziosi contatti, avuti attraverso il padre di Rapini, con la Laurent-Perrier, il primo prototipo di Champagne adottato dai tre amici. Il primo esperimento di spumantizzazione con il metodo champenois, fatto esclusivamente con uva bombino bianco, consisté in poche decine di bottiglie, con i vuoti reperiti nei ristoranti della zona. Fu subito un successo: nel 1985 le bottiglie prodotte furono 3 mila, 15 anni dopo 25.000, oggi siamo a 80 mila bottiglie: ben lontane dai 5 milioni di una grande azienda della Franciacorta, come Berlucchi, ma il prestigio degli spumanti D’Araprì è oggi una realtà ben consolidata.Quella di produrre spumanti di qualità in Capitanata era però solo una parte della sfida: l’altra, in principio non meno azzardata, fu di non impiegare il regale chardonnay, ma l’umile Bombino bianco, una varietà diffusa nell’agro di San Severo,di solito utilizzata in blend con altre uve del luogo per produrre vini bianchi corretti, ma senza pretese, e il montepulciano, l’uva rossa dalla quale nasce il Montepulciano d’Abruzzo, certo ben diversa dall’aristocratico pinot noir.Bombino prodigio lo chiamano i tre amici: una leggenda contadina collega il nome di questo sorprendente vitigno alla somiglianza che i grappoli avrebbero con un bambino (altre, non meno fantasiose, sono quella che la fa risalire a buon vino e quella proposta dall’autorevolissima fonte di Jancis Robinson, small bomb). Confuso per molto tempo con l’uva con cui in Romagna si produce il Pagadebit, un vino semplice, ma che, grazie alla sua generosità, consente ai contadini di pagare i debiti, il bombino bianco è tutt’altro che una varietà molto produttiva. Lo è certo nelle zone a coltivazione estensiva (come il cerignolese), dove è impiantato a tendone. Diversamente non produce molto, ed è molto adatto ad essere vendemmiato tardivamente: ha buccia spessa e acidità sostenuta, che si mantiene nel tempo, e addirittura aumenta con l’appassimento. E sono state proprio la marcata acidità, l’alcolicità contenuta e la scarsa definizione olfattiva, a colpire i tre amici. facendone un candidato ideale per la spumantizzazione.L’equivoco che confondeva Bombino e Pagadebit (forse un altro nome della mostosa, una varietà molto diffusa su tutta la dorsale adriatica, lei sì, molto produttiva) è stato avvalorato dallo stesso disciplinare del vino romagnolo, che, sulla base di esso, prevede espressamente il bombino come varietà principale del Pagadebit.Il bombino è da sempre stato presente nell’agro di San Severo, dove, prima della fillossera, era coltivato con il caratteristico impianto a pagliarella, e rappresentava l’85-90% delle varietà presenti. Quando, negli anni ’20-’30 si cominciò a ricostituire il patrimonio di vigne distrutto dalla fillossera, il bombino fu reimpiantato insieme con altre varietà che presero gradualmente il sopravvento: in primis il trebbiano toscano e quello abruzzese, calando così al 60% nel 1930, a meno del 40% dopo la guerra mondiale e ai soli 2000 acri attuali.fonte:Corriere del Mezzogiorno
